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Torna alla ribalta questa volta nazionale la tratta ferrata Sicignano- Lagonegro, con i suoi 78 km dimessi ormai da 26 anni e dal lontano 1987. “Rotaie asfaltate, bufale d’oro e auto di legno” è il titolo dell’inchiesta firmata dal giornalista Antonello Caporale e alla quale “Il Fatto Quotidinano” di domenica ha dedicato ben 2 centralissime pagine. “L’Italia non ha una sua metà” scrive Caporale, sottolineando come una volta attivati in treno a Sicignano degli Alburni la scelta per proseguire il viaggio sulla linea ferrata è tra Potenza e Reggio Calabria, schematicamente verso il Tirreno o, con un salto, verso l’Adriatico. Tutte le città, i paesi, i villaggi interni sono invece scavalcati, come annullati. “Se stai in mezzo, tra le vallate del salernitano – sottolinea ancora Caporale- ti fermi e attendi il bus, quando passa”. Considerati dunque insignificanti i paesi dell’entroterra salernitano, e secondo Caporale negli ultimi 30 anni questo stato di cose è andato a vantaggio delle società di autolinee. “Si è rivelato un business eccellente -si legge nell’inchiesta pubblicata da “Il Fatto Quotidiano- un centro lobbistico che ha piegato le resistenze degli amministratori locali, usurpando dalle regioni il diritto imperituro alla concessione, spesso in nome del contributo a fondo perduto, di sicuro all’assistenza eterna”. Insomma per Caporale se i treni costano, è alto anche il prezzo degli autobus. L’inchiesta cita la battaglia portata avanti da anni dal responsabile trasporti del Codacons Vallo di Diano Rocco Panetta in particolare per i tratti della linea ferrata –mai ricordiamo ufficialmente chiusa- tranciati in più parti. Caso eclatante quello di Polla. “Nella piazza di Polla i binari sono stati asfaltati –continua infatti l’inchiesta di Caporale- si dice per permettere ai bisonti gommati una più agevole traiettoria. Il comune quando ha potuto ha fatto costruire fin dentro la ferrovia, in modo che l’idea di un treno di nuovo in funzione scomparisse per sempre da queste parti”. Insomma una vera e propria denuncia quella lanciata da Caporale, secondo il quale tenere aperta una ferrovia significa tenere aperta una possibilità di sviluppo, un regolatore demografico, oltre che una questione di civiltà. Ma soldi per le ferrovie non ce ne sono stati, mentre ai lati dei binari dismessi sono stati sversati 80 miliardi di contributi pubblici, concessi sotto il nome della famigerata legge 488. Montagne di euro mobilitati non per riattivare la linea ferrata –considerato evidentemente un spreco dallo Stato- ma andati invece quasi tutti ad ingrassare le tasche di imprenditori del nulla, ladri di Stato e mariuoli matricolati, in progetti senza capo né coda mai realizzati, oppure finiti nelle mani della criminalità organizzata.